giovedì 20 agosto 2009

Condotta Antisindacale - Art. 28 Statuto dei Lavoratori

La legge n. 300 del 20.5.1970, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, c.d. Statuto dei lavoratori, riconosce al sindacato l’esercizio della impresa di alcuni diritti, quali la libertà e l’attività sindacale, e, allo stesso tempo, riconosce il potere di agire in giudizio, per la tutela degli interessi dei lavoratori. L’art. 28 della legge di cui sopra, come modificato dalla l. 8.11.1997, n. 847, dispone che “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale, nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazioni che vi abbiano interesse, il giudice del luogo dove è posto in essere il comportamento denunciato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”. L’azione in giudizio per la tutela degli interessi dei lavoratori ha, quindi, come presupposto una condotta antisindacale posta in essere da soggetti che svolgono attività imputabile al datore di lavoro. Il legislatore definisce come condotta antisindacale del datore di lavoro tutti quei comportamenti che vadano a ledere la libertà sindacale dei lavoratori, nozione volutamente ampia al fine di comprendere nella stessa qualsiasi attacco od ostacolo al libero svolgimento della dialettica sindacale. L’articolo sopra menzionato non tipizza la fattispecie del comportamento antisindacale, proprio allo scopo di consentire un più efficace intervento repressivo nei confronti di qualsiasi condotta lesiva; per integrare un siffatto comportamento è sufficiente la realizzazione dell’oggettivo pregiudizio agli interessi collettivi c.d. antisindacalità oggettiva del comportamento. La norma prevista dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori non fornisce, infatti, una definizione analitica, ma teleologica della condotta antisindacale (Giugni 2001, 115), che individua il comportamento illegittimo in base alla sua idoneità a ledere i beni protetti e non in base a caratteristiche strutturali. Due sono gli elementi che caratterizzano la configurabilità del comportamento antisindacale: uno oggettivo e uno soggettivo;
a) l’elemento oggettivo consiste nella attitudine, anche solo potenziale, del comportamento del datore di lavoro alla lesione degli interessi tutelati dall’art. 28;
b) l’elemento soggettivo, invece, consiste nella intenzionalità del comportamento antisindacale, nella conoscenza e nella volontà di porre in essere un comportamento antisindacale. La parola comportamenti in tale ambito deve essere riferita sia ad atti giuridici e sia a condotte materiali; le espressioni “limitare o impedire”, previste nella norma, accomunano gli atti più gravi, volti alla eliminazione dell’azione di controparte, e quelli meno gravi, tendenti solamente a circoscriverla. A mero titolo esemplificativo possono essere considerati comportamenti antisindacali le seguenti ipotesi fornite, ovviamente date dalla casistica giurisprudenziale: - il diniego del datore di lavoro di consentire l’assemblea prevista dall’art. 20 dello Statuto; - il trasferimento del dirigente di rappresentanze sindacali senza il necessario nulla osta dell’associazione sindacale di appartenenza ex art. 22 Statuto ; - il rifiuto di mettere a disposizione i locali ex art. 27 dello Statuto; - l’illegittimo sostegno ad una associazione sindacale; - il rifiuto dei permessi previsti dagli artt. 23, 24, 30 e 32 Statuto. La formulazione contenuta nell’articolo in oggetto rappresenta una c.d. norma in bianco, nel senso che è idonea a reprimere qualsiasi condotta antisindacale del datore di lavoro, a prescindere dalle modalità con cui la stessa viene realizzata; la previsione della norma è, difatti, volutamente indeterminata, posto che l’obiettivo che si prefigge è quello della repressione del comportamento del datore di lavoro idoneo a ledere, direttamente o indirettamente, il bene protetto (Biagi 2001, 283). La casistica giurisprudenziale è molto vasta in tale ambito, ma ciò che si può affermare è che la condotta antisindacale riguarda non solo la violazione dei diritti sindacali tipici previsti nello statuto dei lavoratori o in altre fonti legali, ma anche qualsiasi altro comportamento del datore di lavoro lesivo dell’interesse sindacale dei lavoratori.
L’articolo 28 e il pubblico impiego.
Una delle problematiche in ambito giurisprudenziale in tema di art. 28 della l. 300/1970 ha riguardato la tutela giurisdizionale contro eventuali condotte antisindacali delle pubbliche amministrazioni, soprattutto dello Stato, ai danni dei propri dipendenti. L’art. 6 della l. 12.6.1990, n. 142 intitolata “Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”, ha aggiunto all’art. 28 in commento due commi, riprendendo i precedenti orientamenti giurisprudenziali, dispone che l’azione prevista nell’articolo de quo era sì esperibile ma innanzi al giudice del tribunale solamente quando il comportamento denunciato andava a ledere esclusivamente l’interesse del sindacato. Nella ipotesi in cui il comportamento fosse da considerarsi plurioffensivo,in quanto andava a ledere anche l’interesse del pubblico dipendente, si chiedeva la rimozione del provvedimento lesivo, e la giurisdizione era attribuita al giudice amministrativo. Con il d.lg. 3.2.1993, n. 29 del 1993, come modificato dal d.lg. 31.3.1998, n. 80, nell’ambito della privatizzazione del pubblico impiego, si è attribuita tale giurisdizione in tutti i casi, al giudice ordinario del lavoro. La norma, però, faceva rimanere ancora forti dubbi sul fatto se operasse o meno nei confronti di qualunque comportamento antisindacale delle pubbliche amministrazioni, ovvero se rimanessero esclusi tutti quei comportamenti relativi ai pubblici dipendenti esclusi dalla riforma, nei cui confronti avrebbero continuato ad essere applicati gli ultimi due commi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori. La soluzione preferibile appariva la prima, anche per lo stesso tenore letterale della norma che non operava differenze in discorso, in quanto la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di pubblico impiego si era trasformata in eccezione, ristretta alle ipotesi previste dall’art. 68 del d.lgs. n. 29/1993. Una simile soluzione era ancorché preferibile, superando qualsiasi tipologia di problema, dopo che l’art. 4 della l. 11.4.2000, n. 83, è andata ad abrogare espressamente gli ultimi due commi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.
Il comportamento antisindacale: la plurioffensività.
La condotta antisindacale, come sopra descritta, molto spesso rimane nei confini tra i rapporti tra datore di lavoro e sindacato, ma altre volte può accadere che la stessa si intrecci con i rapporti tra il datore di lavoro ed i singoli lavoratori, come ad esempio potrebbe accadere nella ipotesi di licenziamento o trasferimento antisindacale. Come specificato l’interesse protetto dalla norma prevista dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, è quello proprio del sindacato e non quello del singolo lavoratore, di cui il sindacato stesso non è un sostituto processuale. Può accadere, nella pratica, che un atto del datore di lavoro, legittimo sul piano del rapporto di lavoro, costituisca condotta antisindacale, e viceversa, che un inadempimento nei confronti del singolo lavoratore non costituisca comportamento antisindacale. Solamente nella ipotesi in cui quello stesso atto sia, contemporaneamente, qualificabile come condotta antisindacale e come inadempimento del contratto di lavoro, allora quel comportamento potrà essere definito plurioffensivo, inteso nel senso che va a ledere, da un lato, l’interesse del sindacato legittimato ad agire in base alle disposizioni dell’art. 28, e, dall’altro lato, l’interesse di ogni singolo lavoratore, legittimato all’azione giudiziaria individuale. A mero titolo esemplificativo, secondo la casistica giurisprudenziale, tra i comportamenti lesivi sia di interessi individuali che interessi collettivi, possono citarsi: - il licenziamento del lavoratore per motivi antisindacali (Cass. Sez. U., 17 febbraio 1992, n. 1916, MGL, 1992, 12); - la concessione di trattamenti economici di maggior favore ai sensi dell’articolo 16 dello Statuto, per motivi di discriminazione sindacale; - il trasferimento del lavoratore per motivi antisindacali (Cass. 27 luglio 1990, n. 7589, DPL, 1991, 1287). La plurioffensività del comportamento del datore di lavoro fa sì che possano agire in giudizio sia il singolo lavoratore, per tutelare il proprio interesse individuale, che il sindacato, per la tutela dell’interesse collettivo; il lavoratore potrà avvalersi delle normali vie giudiziarie, mentre il sindacato si avvarrà dello strumento processuale offerto dall’art. 28 dello Statuto.
Legittimazione attiva ad agire: questioni di legittimità costituzionale della norma.
Legittimati ad agire in giudizio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 28 dello Statuto, sono gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse; pertanto, in base a tale dicitura devono ritenersi esclusi: - i singoli lavoratori, siano essi direttamente o indirettamente coinvolti nella vicenda; - e le organizzazioni sindacali prive di una rappresentatività sul piano nazionale. L’autore della condotta antisindacale è identificato espressamente nel datore di lavoro, intendendo per tale, qualsiasi datore senza alcuna distinzione con riferimento alle dimensioni dell’organico e alla natura imprenditoriale o meno della attività. In ordine a tale norma sono sorti alcuni dubbi di legittimità costituzionale, rilevando che la titolarità dei diritti protetti dall’art. 28 in commento, è dei singoli lavoratori anche se tali diritti sono, però, ad esercizio collettivo. Infatti se tale norma rende effettiva la tutela processuale di interessi che fanno capo ad ogni singolo lavoratore, non si giustifica l’esclusione di questi ultimi dalla legittimazione.
Legittimazione passiva.
L'autore della condotta antisindacale, in base alle previsioni dell’art. 28 della l. n. 300/1970, è il datore di lavoro, al quale viene anche riferito il reato proprio di inottemperanza all’ordine del giudice. La norma, così come posta, si riferisce ad ogni singolo datore di lavoro, senza fare alcuna differenziazione per ciò che attiene alle dimensioni dell’organico, alla natura imprenditoriale o meno della attività (Cass. 25 luglio 1984, n. 4374, GC, 1984, 3005; Cass. Sez. U., 17 febbraio 1992, n. 1916, FI, 1992, 3020). Tale lettura della norma conferma, altresì, che il procedimento previsto nell’art. 28, non tutela solamente i diritti sindacali tipici previsti dallo Statuto, che hanno un campo di applicazione limitato, ma concerne anche le condotte antisindacali atipiche (Vallebona 2000, 263). Il datore di lavoro risponde anche del comportamento antisindacale posto in essere dai proprio dipendenti, nonché da eventuali soggetti terzi incaricati dallo stesso. Le associazioni dei datori di lavoro non sono dotati di legittimazione passiva (Cass. 13 agosto 1993 n. 4906, MGL, 1981, 712); comunque hanno la possibilità di essere convenute in giudizio, allo stessa stregua di altri soggetti, a titolo di concorso di colpa del datore di lavoro.
Il procedimento per la repressione della condotta antisindacale.
Il procedimento descritto nell’art. 28 della l. n. 300/1970 si scinde in due fasi ben delineate, che si svolgono davanti al giudice. L’interesse protetto dal divieto di condotta antisindacale è quello del sindacato e non quello dei singoli lavoratori, pertanto, la legittimazione attiva per il procedimento, come accennato, per il procedimento spetta in via esclusiva al sindacato; ma non tutti i sindacati possono avvalersi della procedura prevista dall’art. 28 della l. n. 300/1970, solamente quelli nazionali. Il favore per tali tipi di sindacati viene spiegato con l’esigenza di affidare uno strumento di tutela così forte ed efficace solamente a soggetti che, per la loro dimensione, ne possano garantire un uso responsabile (Vallebona 2000, 261). Secondo la Cassazione (Cass. 8 agosto 1997, n. 7368, MGL, 1998, 43) la legittimazione attiva non spetta ad organismi locali di confederazioni, ma solamente agli organismi locali dei sindacati nazionali di categoria. La prima fase di questo procedimento si apre con una fase sommaria dinanzi al giudice del luogo in cui è posto in essere il comportamento denunciato, il quale deve consentire il contraddittorio tra le parti, non potendo provvedere sul ricorso del sindacato inaudita altera parte, come invece avviene nei procedimenti cautelari. A tale scopo il giudice dovrà aver cura di convocare le parti entro due giorni (anche se di fatto nella pratica tale termine è sempre più ampio sia per esigenze di ufficio, che per i tempi di notifica, e sia per permettere una migliore difesa del datore di lavoro consentendogli il tempo di rivolgersi ad un legale). In questa fase, pertanto, il procedimento è sommario, nel senso che l’eventuale istruttoria necessaria sui fatti non viene svolta con l’espletamento dei mezzi di prova ordinari , ma solo attraverso l’assunzione di sommarie informazioni. Il giudice decide in questa prima fase del procedimento con un decreto motivato che è immediatamente esecutivo, pertanto, nel caso in cui la domanda del sindacato trovi accoglimento il datore di lavoro dovrà attenersi a quanto stabilito dal giudice, e a protrarre tale ottemperanza anche nelle more della eventuale opposizione ( l’accoglimento di una eventuale opposizione potrà travolgere l’efficacia esecutiva del decreto del giudice fino a quel momento irrevocabile). La seconda fase di questo procedimento è costituita dalla eventuale opposizione che la parte soccombente, sia essa il datore di lavoro oppure il sindacato, può proporre, avverso il decreto entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione della cancelleria; per quanto attiene alla competenza, originariamente attribuita al giudice di secondo grado, è stata affidata (con la novella della l. n. 847/1977) allo stesso giudice della fase sommaria, che però non potrà essere la stessa persona fisica che ha emanato il decreto, ricorrendo, in tal caso, il motivo di astensione obbligatoria o di ricusazione, ex art. 51, n. 4, c.p.c. Nel giudizio di opposizione non può essere modificata la fattispecie dedotta nella fase sommaria, salvo episodi di continuazione o collegati confermativi della condotta originariamente denunziata (Vallebona 2000, 265). Nella ipotesi di mancata opposizione tempestiva, oppure nel caso in cui ci sia estinzione del giudizio di opposizione, il decreto del giudice passa in giudicato, ovviamente a danno del soccombente, al contrario dei provvedimenti cautelari che diventano inefficaci se la parte vittoriosa non introduce tempestivamente oppure lascia estinguere il giudizio di merito. La seconda fase di questo procedimento per la repressione della condotta antisindacale viene regolato dalle norme previste per il rito del lavoro, e si conclude con una sentenza del giudice, immediatamente esecutiva, che può, pertanto, essere impugnata con un normale appello.
Le sanzioni.
Un altro elemento particolare del procedimento per la repressione della condotta antisindacale previsto dall’art. 28 della l. n. 300/1970 riguarda l’apparato sanzionatorio. In questa fase il legislatore ha come scopo quello del ripristino dello staus quo ante, senza ulteriori conseguenze afflittive o comunque, sanzionatorie per il datore di lavoro; ma allo scopo di superare le difficoltà di un processo esecutivo il legislatore ha introdotto anche un sistema di coazione indiretta, vale a dire uno strumento che costringa il condannato ad adeguarsi all’ordine del giudice. Con il decreto motivato del giudice nella prima fase del procedimento sommario, oppure con la sentenza che decide l’eventuale opposizione, il giudice, nella ipotesi in cui accerti la condotta antisindacale, ordina al datore di lavoro la cessazione di quel comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti che ne sono conseguiti. E’ un tipica tutela inibitoria per quanto riguarda la cessazione del comportamento, e ripristinatoria, per quanto riguarda la rimozione degli eventuali effetti conseguenti. Questo ordine del giudice è, come accennato in precedenza, immediatamente esecutivo, sia nel decreto conclusivo della prima fase sommaria del procedimento, sia se contenuto nella sentenza che decide sulla opposizione. Allo scopo di rendere effettiva la tutela dell’interesse sindacale è prevista, quale misura coercitiva indiretta, una sanzione penale a carico del datore di lavoro inottemperante all’ordine del giudice; si tratta della sanzione prevista dall’art. 650 c.p. “Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, il quale dispone che “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dalla autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino ad Euro 206,00”. Si tratta di una norma in bianco, che presuppone un precetto non munito di una propria sanzione ed ha contenuto esclusivamente sanzionatorio di provvedimenti contingenti, determinati da necessità od opportunità attuali e transeunti, dati dall'autorità competente in determinate materie. Pertanto essa si rende inapplicabile rispetto a quei provvedimenti la cui inosservanza è espressa in modo specifico da particolari norme giuridiche (Trib. Campobasso, 17 febbraio 2006, in http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?campo1=32&campo2=9&browse_id=8062).
Per una migliore “sanzione sociale” del riprovevole comportamento del datore di lavoro, la sentenza di condanna penale è, altresì, soggetta anche alla pubblicazione ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 36 c.p. (Pubblicazione della sentenza penale di condanna); la coazione indiretta all’adempimento dell’ordine dato dal giudice, garantita, come visto, dalla sanzione penale, rappresenta una delle maggiori innovazioni dello Statuto dei lavoratori nonché la principale ragione della sua efficace applicazione. L’obbligo di osservanza sanzionato penalmente, viene meno per il futuro nella ipotesi in cui il provvedimento del giudice sia rimosso in accoglimento della opposizione o della impugnazione del datore di lavoro oppure sopravvenga un accordo tra le parti. Con la l. 23.12.2000, n. 388 è stato aggiunto un altro tipo di sanzione: l’art. 7, comma 7°, di tale legge dispone la “revoca delle agevolazioni fiscali di incentivazione di nuova occupazione” a danno del datore di lavoro condannato, con provvedimento definitivo, per condotta antisindacale.
Argomento tratto dal Sito: Persona e danno.

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